Cheek to Cheek

“Cheek to Cheek” – legno di larice e filo da sutura (150x15x3 cm) – Scultura di Alberto Festi

Legno levigato, pelle rugosa
Corteccia scabra, morbide carni
Stessa ferita
Stessa cura per lama o carezza
La salvezza
è un millimetro di scarto
è in quel 
che è perduto
Poiché dove manca qualcosa c’è tutto
quello che manca.

Fragile velo ligneo
Pelle aspra color nocciola
Lo stupore non è in quello che non può essere
ma in quello che inganna facendo credere che sia

[testo di Antonella Fava]

Nodo

“Nodo” – legno di larice e corda (23x18x10 cm) – Scultura di Alberto Festi

Nodo

Non uno, sono almeno tre i nodi di questa scultura.
In superficie c’è quello del laccio. È un nodo grazioso e lo sconcerto nasce davanti all’evidenza che possa essere davvero lui all’origine di una tensione in grado di deformare la materia.

C’è poi quello della materia che si annoda su se stessa, il legno denso e rigido che si flette per allacciarsi a sé. La sorpresa risiede allora nel dover constatare la morbidezza e la dolcezza delle sue curve, contro ogni aspettativa e contro ogni logica.

Infine c’è il nodo profondo, quello che si avviluppa tra le venature del legno. La meraviglia prosegue qui nel disegno dei vortici, che sembrano creare essi stessi il movimento che dà forma all’opera.

Larghezza, lunghezza e profondità sono percorse da questi intrecci, ma il triplice nodo suggerisce anche la possibilità di potersi estendere oltre le tre dimensioni, anche se l’infinito in realtà non si concretizza mai, né nell’otto rovesciato che resta incompleto, né nelle linee che dovrebbero divergere all’infinito e che invece si troncano, restando vicine.

Alla fine la vera essenza dell’opera trascende tutti i nodi e i loro percorsi e sta nell’energia che da essi sprigiona, quella di un gesto che richiede una forza immane per riuscire a piegare su se stesso un materiale tanto ostile. Una forza indicibile e impensabile necessaria per realizzare un’azione il cui risultato è qualcosa che al contrario è estremamente leggero e delicato.
Come il fiocco che quell’energia la trattiene.

 

 

Senza titolo

“Senza titolo” (Legno di larice – 153x26x3 cm) – scultura di Alberto Festi

“Ce n’est pas tant des événements que j’ai curiosité, que de moi-même. Tel se croît capable de tout, qui, devant que d’agir recule… Qu’il y a loin entre l’imagination et le fait!”
[Non è tanto degli avvenimenti che sono curioso, quanto di me stesso. Ci sono persone che si credono capaci di tutto, ma al momento di agire si tirano indietro… Che enorme distanza tra l’immaginazione e il fatto!]

André Gide, Les Caves du Vatican

Non solo un gesto volontario, non solo una traccia appositamente lasciata di sé: è l’atto gratuito, l’azione immotivata il soggetto di quest’opera.
Esattamente come, nel romanzo di Gide, il protagonista getta un altro viaggiatore dal treno senza alcun motivo, così l’artista deforma la materia e lo fa con tutto il peso del suo corpo, quello vero e quello ideale.
Lo fa come gesto di volontà pura, che assume valore proprio perché lui stesso non ne conosce la ragione e lo fa trasformando nelle sue tre dimensioni una forma geometrica perfetta, calpestando l’ordine delle cose e facendo debordare la materia là dove prima non era, verso il dominio dell’immaginario.

La lunga asse in larice è il percorso già tracciato, la via su cui corre il convoglio con il suo contenuto dal moto relativo nullo. L’impronta è la volontà di agire, la prova che non ci “si tira indietro”, che c’è un’enorme distanza, appunto, tra l’immaginazione e il fatto.

Ma se l’azione è ciò che l’autore riserva a se stesso, egli consegna invece tutta l’immaginazione allo spettatore che non può fare a meno di domandarsi il come e il perché e che inevitabilmente cerca di costruire una storia attorno a ciò che non c’è.
Che non c’è più o che non c’è mai stato perché non era lui o non era il momento.
Ci si chiede allora dove sia l’artista, che attraverso questo gesto sembra a sua volta cercare se stesso, per scoprire che è proprio lì, in quell’azione incisiva quanto i segni lasciati sulla materia, anche se l’impronta è l’unica cosa che ne resta.

Non è però assenza la sua, bensì presenza in negativo. È calco, sagoma invisibile da ricostruire, con una storia diversa per chiunque abbia voglia di leggerla.
O di scriverla chissà.

Knot here

“Knot here” (90x12x18 cm) – Legno di larice e corda

Knot here

L’idea che è alla base di questa scultura è quella di trattare un materiale in modo che possa acquisire delle caratteristiche che normalmente non gli sono peculiari.
Dare al legno, in questo caso, una malleabilità e una morbidezza che per natura non possiede può a mio avviso generare grande bellezza.
Non è bellezza che deriva dalla forma e nemmeno dal significato, ma è bellezza che nasce dalla discrepanza tra quello che la nostra mente legge nella realtà e quello che interpreta come in contrasto con essa. E’ bellezza che genera poesia sotto forma di espansione della realtà stessa.
Ma non c’è solo questo. Quello che rende ai miei occhi questa piccola scultura speciale non è solo il riuscire a dare a un materiale proprietà che sono tipiche di materie più flessibili. Questo è infatti un procedimento comune nella scultura, che spesso mima in modo mirabile panneggi, vesti e veli partendo da materiali rigidi come il legno o il marmo.
Ma qui c’è di più, qui c’è la tensione. Non si tratta infatti di imitazione statica: quello che è riprodotto è un moto, una forza che esce infine dall’interno stesso della materia per affiorare in superficie.
È azione della materia stessa che si vuole altra da sé.

Knot here

Knot here

Knot here

 

Ombre spiccate

Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra – ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono
(“Ciò che di me sapeste” – Ossi di Seppia, E. Montale)

Donare un’ombra. Sembra una cosa assurda, impossibile e, agli occhi dei più, soprattutto inutile. Eppure.
Eppure la propria ombra è alla fine tra le cose che ci definiscono meglio: è il nostro contorno, una specie di involucro che ci corrisponde nei minimi dettagli, ma di cui non si distingue il contenuto, esso si può solo intuire e forse è proprio quello il bello.
Donare la propria ombra può quindi essere un gesto di grande intensità, corrisponde a dare la possibilità di mettersi per qualche istante là dove ci si può sentire davvero al posto di qualcun altro e diventa allora un’esperienza unica.

Per mettervi nei nostri panni, camminate guardando i video seguenti sul vostro smartphone


Oppure provate l’esperienza dal vivo alla prossima esposizione delle opere Henjam.

ombra henjam

ombra henjam

(a breve maggiori informazioni)

Work in progress

Work in progress, non c’è da stupirsi, Henjam è opera activa.
Questa volta però il lavoro non riguarda la creazione artistica, o meglio, non direttamente. A dire il vero  anche quello che viene realizzato in questo frangente è a mio avviso una forma d’arte. È arte che viene messa in forma, certo, ma è soprattutto maestrìa, cura, precisione, attenzione, amore per ciò che viene fatto.
Arte appunto.

 

Ecco il risultato delle prime jute messe su telaio.
(cliccate per vederle singolarmente, ne vale la pena)

Le opere Henjam sono in via di preparazione per essere prossimamente esposte al pubblico. A breve saprete di più, stay tuned!

 

Aranciazione

Dedicare giornate di lavoro minuzioso alla realizzazione di un dipinto ad olio perché poi sia violato in pochi istanti con dello smalto… arancione per giunta.
La spiegazione è semplice quanto disarmante. La nostra percezione di bellezza è talmente avariata da provare quasi disagio davanti ad una situazione di ordine naturale delle cose e così un paesaggio innevato dopo il primo istante di stupore per la sua immacolata bellezza ci relega in uno stato di desolazione che cerchiamo quanto prima di colmare con qualche forma di artificio.
E la neve da silenzio immacolato diventa luna park del divertimento ennesimo baluardo violato dalla nostra onnivora ingordigia di sensazioni.

Tempesta

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Ice

Cronaca di un dialogo scritto a due voci

(di A.F e A.F)

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io: ”io sono ambiguo. Sono io che ho fatto l’opera, ma sono anche te mentre leggi quello che ho fatto. Sono dentro e sono fuori, ma qui mi faccio gioiello, mi faccio piccolo e prezioso. Sono come diamante, fatto per essere incastonato su una montatura che metta in risalto tutte le mie sfaccettature brillanti. Ce n’è tante di sfaccettature nell’io, le vedi?”

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tu: “tu è la tua manifestazione esteriore, superficiale, apparente. Sempre accanto a te in modo che chiunque ci si ponga di fronte riesca ad identificarsi o con te o con me. Ora con te, ora con me, mai contemporaneamente con entrambi. Non possiamo infatti essere allo stesso tempo introspettivi ed estroversi, per questo sono necessari tempi diversi e separati fra loro. Ora sono io, ora tu, non puoi farci niente contro lo scarto temporale che separa questa diversa percezione. Quindi caro amico io, tu e io siamo tremendamente legati da una profonda divisione.”

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io: “tu pensi di essere accanto a me? tu sei me! Nel momento in cui ti rifletti nella mia forma sei specchio. Nel momento in cui ti credi solido e persistente ti scopri instabile. La tua opalescenza non è quella del marmo ma quella del ghiaccio.
Guardami, guardati: i tuoi cristalli stanno solo aspettando di sciogliersi per rifluire nell’unica cosa che sei”.

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tu: “io sono te è vero, ma in una ricostruzione a posteriori. Solo un io che si immagina dal di fuori può essere un tu, ma a quel punto non é più attuale: io, in quanto tu, non posso che rappresentare il tuo passato, mentre tu, in quanto io, sei il mio presente.
‘tu’ sono io lì e prima
‘io’ sei tu qui e ora

 

Varco

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Terra di Cassel
Lacca di Garanza
Ocra Gialla Naturale
Verde Cinabro Scuro
Blu di Prussia
Bianco di Zinco
Bianco di Titanio

Sette, sono solo sette i colori utilizzati per creare questo dipinto: 7 come le 7 meraviglie dell’antichità, i 7 colori dell’iride, le 7 note della scala musicale, le 7 virtù ma anche i 7 vizi capitali, le 7 vite del Gatto, i giorni della settimana e persino i 7 nani.
E come le stelle principali di Orione.

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Chissà quale mano avrà spinto gli antichi a tracciare una linea che unisce proprio quei puntini lì nel cielo, chissà come hanno fatto a vederci proprio un cacciatore.
Io ci ho sempre visto una clessidra. 
Ma la storia d’amore tra me e il tempo è una cosa complessa e si perde nelle sue stesse pieghe.
E di tempo e memoria qui si tratta perché il soggetto di questo dipinto è la tromba delle scale della casa che mi ha visto bambina, lì dove sono cresciuta fino a 14 anni, esattamente fino alla fine della mia frequenza alle scuole medie. Buffo a volte come certi confini diventino centrali.
Questo dipinto è opera infatti anche del mio compagno di banco delle medie, quello che non ho mai più rivisto in seguito e che assieme a Matteo ha voluto farmi dono di questa meraviglia.
Questo dipinto però ha qualcosa di speciale e non solo per me che lo vivo con partecipazione emotiva squisitamente privata.
Questo dipinto è più che una composizione perfetta in cui le rette giocano con la sezione aurea e le linee curve si mimetizzano nascendo come per magia dall’affiancarsi di angoli acuti.
Questo dipinto è più che una realizzazione perfetta di colori sapientemente modulati per arrivare a creare una morbida tridimensionalità là dove non c’è che una superficie piatta ma al tempo stesso difficile e scabra quale è la juta.
Questo dipinto è molto di più della finzione di una finzione, perché in quanto tale tende ad avvicinarsi intimamente alla verità, che è perfetta proprio perché non si realizza mai se non come astrazione totale. 

Quadro di un quadro, quadro al quadrato, ricordo di un ricordo, ricordo ricordato.
Riflesso del riflesso in occhi altrui che lo hanno restituito alla memoria. La mia.

Questo dipinto è anche molto più della rappresentazione di un ricordo. E’ il ricordo stesso che si sveglia da un sonno in cui non sapeva di essere precipitato. E si sorprende di non aver più saputo di avere proprio quel colore e quella forma lì, quella rotondità nei pomoli d’ottone, quella ruvidità della pietra e quel colore del legno verniciato e un tempo un po’ scheggiato e i riccioli, soprattutto quei riccioli di metallo nitido.
Questo dipinto è molto di più di un dono, è la presenza immanente di qualcosa che non c’è.
Questo dipinto è un varco.
Lo vedi e ti porta dentro, ti porta oltre, ti porta attraverso. Lo sguardo punta avanti ma al tempo stesso va verso il basso.
Questo dipinto è quella quarta dimensione che non riuscivi a concepire e d’un tratto ti appare, epifania inaspettata.
E allora il basso diventa alto, il dentro fuori, il prima dopo.
E ci sei solo tu qui ed ora, che fissi la tua nuca, mentre lo sguardo va verso il basso, gli occhi diventano liquidi e si fanno cascata che precipita verso il rosso di quelle piastrelle, promessa di un’intimità ancora bambina, quella che non ricordavi e che profuma di cipria e naftalina.
E’ rosa, antica e conservata per sempre nell’armadio del cambio stagione.
Questo dipinto è tornato a casa. La sua.

 

 

 

Throw me

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“Throw me”, il messaggio insito nei sanpietrini, quando sono avulsi dalla loro funzione più consueta di pavimentazione stradale, sembra essere di per sé, in quanto oggetti pesanti, spigolosi, che stanno in una mano, quello di venire lanciati.
Proprio per questa loro essenza non si tratta mai di un lancio neutro, bensì di un gesto distruttivo, violento.
Quello che le tre parti di questa scultura invitano a fare è per l’appunto un gesto forte, brutale: è infatti un’incitazione alla separazione di solo ciò che da unito ha un senso.
E sono proprio le parole che incitano alla separazione dei tre blocchi di porfido, suddivise foneticamente nei suoni che le compongono, a renderli di fatto inseparabili.
Si è costretti dunque a scegliere tra obbedire a un impulso che risponde a uno scopo, a una funzione, seppur feroce, che comporta però una totale perdita di senso e il mantenimento del significato.