Il gioco tra realtà e finzione è il cuore di questa nuova opera di Alberto Festi.
Non la si vede subito la verità, quando ci si trova davanti a questa tastiera per computer. Essa è nascosta in una sequenza di lettere che in genere sono prive di senso, anche se il loro scopo è proprio quello di crearne uno.
Non la si vede subito la verità, eppure la rivelazione è potente, quando si capisce che quello che credevamo essere uno strumento per scrivere è in realtà un supporto contenente un significato, l’unico possibile tra le infinite combinazioni che si sarebbero potute immaginare.
Plastica al posto del marmo, pezzi di ricambio anziché lavoro di scalpello, Alberto reinventa qui l’incisione e lo fa chiedendo ancora una volta l’intervento dell’osservatore.
Il testo non si esaurisce infatti nella sua mera esposizione, ma diventa invito all’azione: quei tasti chiedono di essere digitati, anche se solo per ricomporre altrove quell’unica frase che ci interpella di fronte alla realtà di una cosa non vera.
“Era vera l’illusione che ci teneva”. L’affermazione ha l’intensità di un’epifania, ma ci lascia sull’orlo di un precipizio quando ci rendiamo conto che la verità di un’illusione corrisponde alla sua fine.